Scrivere un saggio sull'idea di utopia ou tópos (letteralmente non luogo) significa quantomeno confrontarsi con il tema della lontananza, del limite oltre il quale non ci è dato andare se non nella modalità del sogno. E pensare il lontano significa dare figura e forma a ciò che visibile non é, accettare la sfida di creare una nuova sintassi, accogliere in noi nuove immagini in un movimento verso un nuovo tempo e nuovi spazi che sono quelli dell’immaginazione. Ognuno di noi ha sognato almeno una volta l’esistenza di mondi stabili, immobili, intangibili, mai toccati, immutabili nella loro purezza. Luoghi che possano diventare punti di riferimento, paradigma per la nostra vita ed i nostri discorsi intorno ad essa. A tratti durante l’infanzia, la nostra vita pare possedere una simile completezza ed impermeabilità ai cambiamenti. Ebbene, parlare di utopia è un’operazione che concerne il nostro bisogno di opporci alla fragilità dell’esistenza e al senso di transitorietà che deriva dalla nostra natura di individui finiti. Quindi costruire mondi, veri o immaginati, è come, dice Magris (2005) edificare un argine al dilagare del nulla, porre un limite alla nostra angoscia esistenziale. Sappiamo infatti che il tempo ci consumerà (memento mori!), ci distruggerà e fra qualche decennio nulla assomiglierà più a ciò che siamo e che siamo stati. Nulla somiglierà a quel che era, i ricordi ci tradiranno, i nostri ideali all’apparir del vero cadranno. L’utopia così, nelle sue varie declinazioni, diventa l’antidoto a questa perdita, un tentativo di elaborare il lutto attraverso la peregrinazione nei regni dell’altrove; tra visibile ed invisibile, tra naturale e soprannaturale. Ecco allora che prendono forma località immaginarie create dalla fantasia di scrittori e poeti, luoghi collocati oltre i confini del mondo o proiettati nell’al di là (oltretomba o fantascienza); luoghi della tradizione e luoghi del futuro. L’immaginazione è la facoltà di andare oltre il limite, di evocare l’insolito, e in questo senso rompe i recinti della pura ragione. Quindi per dirla con Ernst Bloch la tensione utopica riguarda lo scarto esistente tra ciò che noi siamo e ciò che ameremmo essere, il nostro bisogno profondo di un futuro realizzabile, anche se lontano e a volte imperscrutabile. L'utopia, in questa accezione, ha una doppia valenza: è presente in noi, come la completa realizzazione di un uomo che non è mai ancora nato, l' homo absconditus, ed è esterna a noi come la patria, dove ancora non siamo stati ma che sentiamo come nostra, come fine del nostro cammino. Essa diventa un a-priori; infatti, da che nasciamo ci interroghiamo sul significato della vita ed in questa domanda è implicita la ricerca di una vittoria sul non senso che apre ad orizzonti storici ed esistenziali tendenti a rigenerare l’uomo in una prospettiva sovraumana. L’utopia è in sostanza la risposta alla domanda evangelica Deus meus, deus meus, ut quid dereliquisti me?, il tentativo di superare il dolore del venerdì santo nella speranza di una Pasqua di resurrezione capace di aprire a mondi completamente diversi e di opporsi alla paura della morte. Come se da quella lontananza traessimo la forza per vivere la transitorietà e la finitudine del tempo umano. Viaggiare lontano con la fantasia per superare il dolore del mondo e rendere meno greve la nostra mortale natura. L’utopia quindi come lo strumento che ci consente di superare il tacere del nulla, l’astrazione che diventa l’altra faccia della vita, il mondo immaginario che accompagna l’uomo senza trascendenza. I mondi di utopia si costituiscono con un linguaggio specifico e a questo punto il problema diventa quello della sua rappresentazione. Le cose reali, sotto la spinta del desiderio, vengono trasfigurate grazie ad una seconda vista in grado di creare mondi alternativi.
Pierpaolo Pracca