Modificando gli equilibri biochimici del cervello la mindfulness riduce il dolore e la depressione, combatte i disturbi alimentari, controlla l’ansia. Ecco le ricerche che lo dimostrano.
Dagli anni Cinquanta sono usciti oltre tremila studi scientifici sulla meditazione. Un’antica pratica diventata anche un business miliardario che oggi negli Stati Uniti coinvolge 18 milioni di persone (l’8 per cento della popolazione), con una crescita di popolarità che dagli anni Ottanta non conosce declino, neppure in Europa: una ricerca della parola meditation su Google porta a oltre cento milioni di risultati. La ragione di un simile successo è stata fotografata da uno studio di Harvard, apparso su Science con un titolo che non lasciava spazio a equivoci: Una mente distratta è una mente infelice. Lo studio è del 2010, ma l’intuizione si fa risalire a 2.500 anni fa, quando Buddha, seduto a gambe incrociate sotto un albero, avrebbe preso coscienza della realtà per quello che è, cioè del qui e adesso, e avrebbe smesso di soffrire per i mali del mondo. Accanto all’interpretazione buddhista, questo antico episodio ha una lettura psicofisiologica: sotto quell’albero il monaco si sarebbe liberato di ciò che gli psicologi chiamano «deriva attenzionale», l’innata tendenza della mente a volare altrove, a preoccuparsi di ciò che non c’è. E, di conseguenza, a soffrire.
Secondo lo studio di Harvard, il nostro livello di felicità è infatti correlato alla capacità di essere presenti alle nostre azioni. Invece, in media, metà del nostro tempo la impieghiamo pensando a cose diverse da quelle che stiamo facendo. Ebbene: secondo una produzione scientifica ormai sterminata, la meditare rende la nostra mente meno distratta, dunque meno infelice.
Presa in sé, la meditazione consiste in una serie di esercizi mentali che permettono di seguire ciò che fa la mente mentre lo sta facendo. Ci si focalizza sulle sensazioni corporee e si osserva in terza persona il fluire dei propri pensieri. Questo «sforzo senza sforzo», come lo definiscono i buddisti, oggi può essere misurato grazie alle tecnologie di neuroimmagine, ed è stato sperimentato nella cura di numerosi disturbi di natura psicologica. In particolare, nel campo della sanità sta conoscendo notevoli sviluppi la mindfulness, o meditazione di piena consapevolezza, un modello elaborato negli anni Settanta dal biologo molecolare Jon Kabat-Zinn per portare in ambito clinico, laico, occidentale, l’esperienza della meditazione. Ma, come spiega lo psicoterapeuta Fabio Giommi, ricercatore all’Università di Nijmegen (Olanda) e presidente dell’Associazione italiana per la Mindfulness (Aim), «il termine mindfulness, da solo, rischia di perdere senso, e di confondersi con mode new age. Piuttosto si dovrebbe parlare di protocolli Mindfulness-based (Mb), trattamenti standardizzati basati sulla meditazione mindfulness, utilizzabili in ambito sia sperimentale che terapeutico. Un protocollo Mb può essere applicato a diversi tipi di terapie: riduzione dello stress, disturbi alimentari, prevenzione di ricadute della depressione.
In Italia è molto difficile avere dei numeri, ma il fenomeno è di sicuro in crescita. Noi come Aim abbiamo formato almeno 170 istruttori, però in totale ce ne saranno circa 1.500. Alcuni ospedali, come il San Gerardo di Monza o il Policlinico di Milano, cominciano a proporre ai pazienti protocolli Mb, e la pratica si sta diffondendo anche in ambito aziendale, con iniziative legate al tema dello stress e della leadership».
La mindfulness si è rivelata anche un eccezionale strumento per far emergere capacità naturali della mente, normalmente inibite. Lo illustra bene uno studio del Wake Forest Baptist Medical Center apparso sul Journal of Neuroscience: dopo un training di quattro giorni di mindfulness, un campione di soggetti sani sottoposto a stimolazioni dolorose ha mostrato una soglia del dolore ridotta del 27 per cento. Un equivalente trattamento con oppioidi, in base a studi precedenti, la riduce invece del 22 per cento. Come si spiega un simile risultato?
Secondo lo studio, i soggetti hanno mostrato un incremento nell’attività di aree cerebrali che gestiscono il controllo cognitivo, oltre a una disattivazione del talamo, coinvolto nella percezione del dolore. La meditazione, dunque, allena la mente ad agire su funzioni normalmente non controllabili. E, nei meditatori esperti, induce modificazioni sensibili in almeno otto aree del cervello, come mostra una recente ricerca condotta dall’University of British Columbia pubblicata su Neuroscience & Biobehavioral Reviews. La differenza più notevole riguarda l’incremento della superficie della corteccia cingolata anteriore, un’area coinvolta nel controllo dell’attenzione. Altri studi hanno riscontrato invece una riduzione dell’amigdala destra, regione collegata all’elaborazione delle emozioni negative. Non a caso, chi medita ha una minore tendenza a rimuginare, a somatizzare lo stress, ad ammalarsi. E non è necessario essere monaci tibetani: i test hanno rivelato che anche un’esperienza limitata può modificare gli equilibri biochimici, con esiti tutt’altro che irrilevanti. Un esempio: uno studio della University of Wisconsin diretto da Richard Davidson, personalità di spicco nell’ambito delle ricerche sulla meditazione, ha mostrato che due mesi di pratica sono sufficienti a incrementare la produzione di anticorpi. E i neurotrasmettitori coinvolti nel potenziamento immunitario presiedono anche a molte altre funzioni, ragione per cui la meditazione è utilizzata con successo per i più disparati disturbi: cardiovascolari e digestivi, ma anche dolori cronici, cefalee, insonnia.
Il suo palmarès è talmente vasto che, come osserva Giommi, «ormai la meditazione ha raggiunto anche la scienza più diffidente e razionalista, e potrebbe modificare il nostro approccio alla sofferenza». Ogni scoperta sul cervello sembra dare nuove basi scientifiche a questa tradizione millenaria. Che rivendica di non temere il confronto con la ricerca. È il senso del messaggio del Dalai Lama al Congresso internazionale di neuroscienze che si è svolto a Washington nel 2005: «Se la scienza dimostrerà che certe credenze del buddismo sono false, allora il buddismo le cambierà».
(Giulia Villoresi)